|
Grosseto,
Biblioteca Chelliana, 21 maggio 1999 |
|
|
|
|
Su
invito di Valerio Fusi, che ringrazio, dovrei fare una conferenza “Per
una distruzione del linguaggio”. Non mi spaventa l’idea di dovermi
riferire al linguaggio. Ho guardato il Dizionario di linguistica
pubblicato nel 1994 da Einaudi, compilato da 31 autori sotto la
direzione di Gian Luigi Beccaria, e mi sono imbattuto in questa frase,
non so se autoironica o finto-tonta o tonta:
Capita
addirittura che gli stessi studiosi di scienze del linguaggio facciano
qualche fatica a capirsi fra loro
Oh
allora?
Trovandomi
per la prima volta a Grosseto non posso non pensare a Luciano Bianciardi
e a certe storie che ha raccontato nei suoi libri, e a una storia che ha
raccontato a me.
Alla
Casa della Cultura di Grosseto, nell’immediato dopoguerra, vennero da
Firenze degli intellettuali a fare un dibattito sugli haiku e
cominciarono col leggerne uno (“haiku” si trova ormai anche nei
vocabolari della lingua italiana; se ne scrivono anche in italiano; ne
dico uno di Luigi Sacco, del 1992:
Le
biciclette
svernano
sui balconi
tra i
sempreverdi
Un
haiku vale l’altro. Dal fondo della sala una voce da minatore della
Maremma disse (scusate la mia pronuncia): “oh allora?”. State attenti a
questa frase “oh allora?”, la ripeterò più avanti; quando la ripeterò,
vorrà dire che ancora una riga e la mia conferenza sarà finita.
Per cominciare, abbiamo buttato lì due esempi: gli studiosi di scienze
del linguaggio non si capiscono tra loro, i minatori della Maremma non
capivano certe poesie giapponesi. Per arrivare a una distruzione del
linguaggio ci vorrebbe qualcosa di più, bisognerebbe fare in modo che
nessuno capisca proprio niente del tutto.
Prendiamo un altro esempio.
Parlando del poeta Cesare Ruffato (nato a Padova nel 1924) qualcuno ha
detto: “una frantumazione del linguaggio in cui è abolito ogni ordine
stilistico, ritmico, semantico” (trovate questa frase nel Dizionario
della letteratura italiana del Novecento diretto da Alberto Asor
Rosa, Einaudi, Torino 1992; non ve lo raccomando, come non raccomando
l’altro dizionario citato prima).
Questa del poeta Cesare Ruffato è distruzione del linguaggio? Direi di
no, neanche questa. E’ probabile sia piuttosto un modo di scrivere per
non farsi capire da tutti, una locuzione artificiosa come ne facevano i
poeti provenzali nei secoli XII-XIII. Essi parlavano di trobar clus, che
si traduce “poetare chiuso”; indica la scelta di uno stile
intenzionalmente difficile. Fra gli imitatori italiani del trobar clus,
Guittone d’Arezzo dirà: “scuro saccio che par lo mio detto”, “me
sforzeraggio a trovar novel sono”, “duro e aspro a savorare”.
|
|
|
|
In
questa direzione si mossero probabilmente Dante Alighieri nella canzone
CIII e Francesco Petrarca nella canzone-frottola CV.
Alcuni
per spiegare trobar clus parlano di “ermetismo”. Saltando qualche
secolo, nel 1936 Francesco Flora userà appunto la parola “ermetismo” per
indicare certi poeti degli anni ‘30 che facevano apposta a non farsi
capire. Oggi, dopo più di mezzo secolo, i poeti ermetici hanno messo
così bene radici nei programmi scolastici, nelle storie della
letteratura italiana e nelle antologie che nessuno più si attenta a
respingerli e condannarli come faceva Francesco Flora nel 1936; men che
mai nessuno pensa di deriderli come (posso testimoniarlo) si faceva
correntemente in quegli anni. Per esempio nella commedia L’ex alunno,
andata in scena al Teatro Margherita di Genova nel 1942, pubblicata
nello stesso anno sul numero 381 della rivista “Il Dramma”, per deridere
i poeti dell’ermetismo Giovanni Mosca aveva scritto:
La
vedova di sé
avvolge
gli alberi
che
sentitamente solcano
l’illusa
adolescenza del vento.
Per un'oliva pallida
si può
delirare
Di
questi versi “ermetici” Giovanni Mosca nella commedia dava un commento.
“La vedova di sé” era la notte, se ricordo bene; ricordo che
clandestinamente, teppisticamente, il commento di Giovanni Mosca a
questi versi era diventato il modello delle “analisi estetiche” che si
dovevano fare per compito, in classe o a casa: analisi di non migliori
poesie. Pochi anni più tardi, nel 1949 a Pavia, questo teppismo era
rimasto nel fondo del cuore di chi inventò il Bacedifo, come vedremo.
La
tradizione provenzale, guittoniana, ermetica, era ancora viva la
settimana scorsa, sabato 15 maggio 1999, quando sul “Corriere della
Sera” la poetessa Patrizia Valduga ha insultato i poeti che si fanno
capire “per attrarre l’abietta orda dei non-lettori, sedurre la
plebaglia da un libro all’anno, catturare i bruti e gli abbrutiti, la
maggior parte degli italiani, insomma”. Nello stesso giorno, sulla
stessa pagina dello stesso giornale, il poeta Edoardo Sanguineti ha
detto che in tanta poesia italiana contemporanea “non è passato niente
dello sperimentalismo linguistico, c’è solo nostalgia, neoromanticismo;
[…] scorgo la radice del loro patetismo nei crepuscolari”.
Ma
questa non è ancora distruzione del linguaggio: l’abietta orda dei
non-lettori, la plebaglia, i bruti e gli abbrutiti vanno avanti a
parlare un loro linguaggio, che è semplicemente un po’ diverso da quello
di Sanguineti, di Patrizia Valduga, degli ermetici, di Guittone, dei
provenzali (e viceversa il linguaggio di Sanguineti ecc. è semplicemente
un po’ diverso da quello della plebaglia). |
|
|
|
|
Forse
si trovano efficaci distruzioni del linguaggio in autori del
Quattrocento.
Con
versi come “nominativi fritti e mappamondi” il Burchiello (nato a
Firenze verso il 1404) inventa una forma di linguaggio senza senso, ma
il Burchiello è a modo suo un moderato. Mette insieme parole di cui si
riconosce un senso, una per una: la mancanza di senso viene dal loro
accostamento.
Verso
il 1431 nel Pataffio un altro fiorentino, forse Ramondo di
Amaretto Mannelli, mette insieme parole che sembrano senza senso anche
una per una: “squasimodeo introcque e a fusone”.
Diversa
distruzione del linguaggio verrà sperimentata col macaronico da Teofilo
Folengo (nato nel 1491) e nel 1499 col pedantesco o fidenziano da
Francesco Colonna.
Burchiello,
Pataffio, Folengo, Francesco Colonna si trovano nelle storie
della letteratura italiana, anche se non sempre descritti come
responsabili di svariate distruzioni del linguaggio. Non si trovano
invece nelle storie della letteratura italiana altri autori che hanno
lavorato nella stessa direzione, anche prima del 1404, anche dopo il
1499. Un repertorio è stato preparato da Pier Paolo Rinaldi, Il
piccolo libro del nonsense, Vallardi, Milano 1997; questo è un libro
che vi raccomando.
Prima
di lasciare la letteratura italiana, fermiamoci un momento su Dante
Alighieri, Inferno 7.1 e 31.67:
Pape
Satàn, pape Satàn aleppe!
Raphèl
maì amècche zabì almi
Messi
in bocca a Pluto e a Nembrot, entrambi questi versi sono
incomprensibili; ma forse si potrebbe cercar di interpretare il primo,
cominciando dalla parola ripetuta “Satàn”, sinonimo di Lucifero o Dite o
Belzebù; il secondo invece è commentato da Virgilio proprio come
distruzione del linguaggio. Nembrot con la torre di Babele ha reso non
comunicanti le varie lingue, e ora la sua lingua, per contrappasso, non
può essere capita da nessuno. La chiusura è totale perché da parte sua
Nembrot non capisce nessuna lingua, anzi, essendo “anima sciocca”,
“anima confusa”(31.70, 31.74), non capisce neanche quello che sta
dicendo lui (31.76-81):
Elli
stessi s‘accusa;
questi è
Nembrotto per lo cui mal coto
pur un
linguaggio nel mondo non s’usa.
Lasciàmlo
stare e non parliamo a voto;
ché così
è a lui ciascun linguaggio
come ‘l
suo ad altrui, ch‘a nullo è noto
Se
posso soffermarmi ancora un attimo sul verso di Nembrot, alla lettura
zabì àlmi, tronca e piana, alcuni hanno preferito la lettura zàbi
almi, piana e tronca, col che si avrebbe una “rima per l’occhio”
(che funziona non per il modo in cui viene sentita dall’orecchio, bensì
per il modo in cui le parole appaiono all’occhio, scritte senza tener
conto dei segnaccenti).
Fenomeno
noto alle origini della letteratura italiana, la “rima per l’occhio” non
compare mai in Dante Alighieri, ma potrebbe comparire qui per accrescere
la mostruosità di quanto esce dalla bocca di Nembrot.
Non potendo sapere cosa vogliono dire queste parole, non possiamo sapere
come si pronuncino, quindi la discussione fra i commentatori resta
insolubile. |
|
|
|
Ci
tenevo a parlare di rime per l’occhio perché il colonnello Mario Zaverio
Rossi ne ha fatto una collezione che sta bene insieme ai nonsense
verses di cui parleremo subito. Per esempio:
Con un
ex commilitone
ogni dì
gioca alla morra
ma
costante è l’ossessione
che un
bel giorno anch‘egli morrà.
Il bel
giorno ecco è venuto,
ecco è
morto, ecco lo inumano.
Gli dà
l’ultimo saluto
con un
urlo alto, inumano
Il
libro di Pier Paolo Rinaldi or ora citato fa riferimento al nonsense.
La
parola inglese nonsense, e il calco italiano “nonsenso”, possono
indicare:
• in senso patologico, frase o detto assurdo, illogico, contraddittorio;
• in senso ludico, piccola poesia o prosa in cui le parole si uniscono
solo per il gusto fonico o il gusto della bizzarria.
Anche
una parola o un concetto come “glossolalia” può avere le due accezioni,
patologica o ludica. I libri di Edward Lear (Il libro dei nonsense,
1846, vicino al Burchiello) e di Lewis Carroll (Alice nel paese delle
meraviglie, 1865, Dietro lo specchio, 1872, vicino al
Pataffio), sono distruzioni del linguaggio, in senso ludico secondo
alcuni; altri vedono nelle operazioni di Lear e Carroll qualcosa di
patologico.
Le
strofette di Lear si chiamano impropriamente limericks; se ne son
fatte anche in italiano; ne dico una di Giancarlo Cabella:
C’era un
vecchio quadrivio a Novi Ligure
ove ogni
notte stazionava un lemure,
che, non
avendo spiccioli da spendere,
le
sigarette si faceva accendere
dai
nottambuli, rari a Novi Ligure
Il
punto non è quello del patologico o non-patologico. Ammesso che Lear e
Carroll fossero folli, per noi conta vedere come nella loro follia ci
fosse del metodo. C’è stato del metodo nelle distruzioni del linguaggio
ideate dai futuristi (1909), dai dadaisti (1916), dai surrealisti
(1924), dall’Oulipo (1960), ma queste scuole sono state velleitarie, non
ci hanno lasciato libri leggibili come quelli di Lear e di Carroll.
Permettetemi
adesso di non parlare di Joyce.
Vediamo
finalmente una distruzione del linguaggio che fu elaborata con metodo
rigoroso nel 1949, a Pavia, in un’atmosfera goliardico-teppistica: il
Bacedifo.
Si
comincia applicando le regole di giochi come quello per cui “Garibaldi”
diventa sia “garabalda” (per omovocalizzazione) sia “babi babbi” (per
omoconsonantizzazione). Esempi di omovocalizzazione sono noti in
italiano, in francese e in spagnolo.
Poi,
con vocalizzazione ciclica, si passa a “garebildo”, con
consonantizzazione ciclica si passa a “bacidafgi”, e fondendo le due
operazioni si arriva a “bacedifgo”, che, semplificando, si riduce a “bacedifo”.
Il
Bacedifo con alfabeto latino-italiano di 21 lettere (“Bacedifo 21”)
dice:
bacedifoguhaleminopuqaresitovuza
Il
Bacedifo con alfabeto latino-inglese di 26 lettere (“Bacedifo 26”) dice:
bacedifoguhajekilomunapeqirosutavewixoyuza
Così
tutte le parole e frasi e testi di tutte le lingue alfabetizzate o
alfabetizzabili diventano un (identico o consimile) pastone demenziale.
Proposto a livello popolare nella rubrica dei Wutki su “Linus” nel 1966,
a livello sofisticato sul “Caffè” di Giambattista Vicàri nel 1977, ancor
vivo nella memoria di vari lettori del “Venerdì di Repubblica” nel 1988,
oggetto di un libro nel 1991 (Garibaldi fu ferito, Il Mulino,
Bologna) il Bacedifo ha avuto una voce nella Enciclopedia dei giochi
(Utet, Torino 1999) ed è stato paragonato da Paola De Sanctis
Ricciardone (Antropologia e gioco, Liguori, Napoli 1994) ai
“giochi linguistici” (Sprachspiele) di Ludwig Wittgenstein.
Oh
allora?
Allora,
l’ha detto Samuel Beckett: “se proprio si deve parlare, sia almeno per
non dir niente”. |
|
|